Alina Marazzi da la voce ai diari e alle lettere della madre Luisa, e, montando tutte le immagini di repertorio girate dai componenti della sua famiglia che avevano a disposizione delle macchine da presa sin dagli anni 20, ricostruisce un ritratto della madre morta suicida in seguito ad una grave crisi depressiva. Alina ha perso la mamma che era molto giovane e la sua necessità di ricostruire l’affettività della madre, messa in severa crisi dalla malattia, è il suo tentativo per riavvicinarla. I filmati home made trasudano amore e malinconia, grazie all’ingenuità dello stare di fronte ad una cinepresa tipica del secolo scorso che ogni componente della famiglia riesce a trasmettere. Alina Marazzi in qualche modo appartiene ad una famiglia di videomaker, e proprio il video diventa lo strumento di recupero di una grande parte della sua vita. Emerge drammaticamente il periodo di ricovero nella clinica psichiatrica della madre, dove si alternano momenti di lucidità ad altri di buio e dove appare come un drammatico fil rouge l’assenza totale dell’affettività che quel tipo di trattamento comportava insieme al progressivo annullamento dell’identità della persona, invece assolutamente necessarie alla persona sofferente. Un documentario molto bello che ha l’intensità emotiva e la forza narratrice di un film di finzione.
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